Raccontare la realtà
La sanità pubblica è l'argine alla pandemia
a cura di Matteo Notarangelo
SPIEGAZIONE INCLINATO
Il diritto alla salute non è un fatto ovvio, una questione sociale risolta e acquisita.
Non è così.
Allora, perché importante saperlo?
La pandemia ha mostrato i disastri della politica sanitaria, generati in dieci anni di mala politica. L'emergenza pandemica ha evidenziato che l'ingerenza del privato nella sanità ha tolto soldi alla sanità pubblica e reso insicuro il diritto alla salute. Lo stravolgimento esistenziale, determinato dall'epidemia Covid-19, ha reso esplicito i tagli economici che lo Stato ha fatto alla sanità pubblica, da rendere insicura la certezza della cura.
Negli ospedali pubblici, si è capito che la salute dei cittadini è stata condizionata dalle scelte di politica economica a favore del profitto dei privati. In ogni presidio ospedaliero pubblico, nonostante i danni causati dall'aziendalizzazione della sanità, il diritto alla salute e alla cura è stato difeso, al di là della patologia, degli anni, del sesso, del luogo di provenienza, del credo politico e religioso, della condizione sociale ed economica.
In questa pandemia, solo l'umanità e il coraggio del personale sanitario pubblico hanno permesso ai cittadini malati di ricevere le giuste cure. Al contrario, non ci sono state regioni in cui la sanità privata ha avuto lo stesso coraggio, pur avendo beneficiato di aiuti, concessi dal ceto politico di governo e di opposizione.
Il ceto politico con la riforma del titolo V della Costituzione e la conseguente regionalizzazione del sistema sanitario nazionale universalistico ha reso possibile la stagione degli scandali. Una volontà legislativa che ha favorito l'ingresso dei privati nel mercato sanitario. E oggi, in piena pandemia, è emerso che quella scelta è stata generatrice del disastro sanitario pubblico e causa di impoverimento del servizio sanitario pubblico, privato di risorse umane ed economiche. I continui tagli alla sanità pubblica hanno reso difficile gestire la richiesta di cura dei tanti cittadini fragili, ignari del rischio sanitario, pianificato da anni di mala gestione.
Si potrebbe pensare che chi ha razziato nelle sanità pubblica è stato causa della "strage degli innocenti", eseguita negli ospedali, nelle case di riposo e nelle Residenze Sanitarie Assistite, ma anche nelle abitazioni di gente impaurita. I morti innocenti, anche se annunciati con numeri, erano donne e uomini in carne e ossa: nonni, padri, figli fratelli e sorelle, vittime del disastro politico e burocratico provocato in un Paese che vantava uno dei migliori sistemi sanitari al mondo.
In Italia, la morte di indifesi cittadini è accaduta in modo virulento, mentre la paura del contagio spingeva tanta gente a cantare nei balconi.
Forse, accadrà ancora.
In questi giorni di quarantena, i rappresentanti del Governo e i consulenti scientifici continuano ad annunciare la prossima "seconda ondata".
Nel prossimo autunno, il virus aggredirà la popolazione fragile, con tutta la sua potenza infettiva.
Andrà tutto bene?
Si parla di un probabile vaccino immunizzante, ma non sono noti i protocolli e i modi pratici, concreti per arrestare i contagi e i probabili decessi da virus.
Nessuno ha idea di come contenere i disastri sanitari determinati sia dai 37 miliardi di euro tolti alla sanità pubblica sia dai 13 miliardi di euro che ogni anno sono stati consumati negli sprechi e nelle ruberie.
In autunno, si ritornerà a parlare di quarantena, di mascherine, di distanziamento fisico e di chiusura? Mistero politico. Non sono pochi coloro che affidano il loro destino alla difesa dello Stato sociale, al debito pubblico.
La Germania, intanto, prima della pandemia aveva 28.000 posti letto di terapia intensiva, con la crisi sono diventati 40.000. L'Italia, invece, ne aveva 5.000 posti letto di terapia intensiva, con la crisi ne sono diventati circa 9000.
Bastano?
L'angoscia della morte da Covid 19 continua a soffocare il cittadino dello Stato italiano, che si magnifica per la sua Costituzione repubblicana e per il suo articolo 32, che sancisce: "La Repubblica tutela la salute come un fondamentale diritto dell'individuo e come un generale interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti ...".
Parole, purtroppo, inascoltate dai politici di ieri e di oggi, inebriati da un nuovo mantra economico neoliberista, che ha affidato al mercato la vendita e l'acquisto delle prestazioni sanitarie.
A distanza di anni, gli immemori politici italiani hanno narrato che anche nella sanità "non esistono pasti gratis" e che solo il mercato può regolare il bisogno di cura del cittadino - cliente, che paga le sue cure. Ma con il ritorno dell'emergenza pandemica, la sanità pubblica si affiderà all'eroismo del personale sanitario, alla retorica della comunicazione politica e allo spavento dei cittadini?
Ad oggi, nessuno ha preso atto che, in piena emergenza, la sanità privata è stata assente, inesistente e solo il coraggio di medici, infermieri, personale sanitario e volontari ha permesso le cure sanitarie ai malati di Covid 19. Cure date, dagli operatori sanitari pubblici a mani nude, con pochissimi dispositivi di protezione individuale. Un disastro sanitario vissuto che non ha indebolito il credo ultra liberista dell' efficienza della sanità privata.
In Italia, nonostante tutto, nelle istituzioni si aggirano, tra le macerie della sanità pubblica, spettri di economisti neo classici per aggraziarsi il ceto politico di governo, ancora tutt'oggi abbagliato di un piano sanitario nazionale privatizzato.
Sono loro, i neoliberisti, che dopo aver distrutto la rete della medicina territoriale, aver chiuso tanti ospedali, aver danneggiato il bene comune e aver trasferito miliardi pubblici alla sanità privata, ripetono che il mercato sanitario si autoregola e che la presenza dello Stato nell'ambito sanitario deve essere minima. Sono sempre loro, i neoliberisti, che hanno imposto allo Stato e ai cittadini di comprare prestazioni sanitarie dai privati.
Al di là della pericolosità del coronavirus, l'inquietudine individuale e collettiva è stata generata dal partito unico di governo che amplifica il terrore di ammalarsi, l'incertezza di essere curati, la paura crescente di perdere il servizio sanitario pubblico e la certezza di rinunciare alle protezioni dello Stato sociale.
É stata questa politica dell' incertezza che ha incrementato l'idea dell'insicurezza dei diritti sociali e dell'incertezza dell'assistenza sanitaria "dalla culla alla tomba". Una paura di una sanità privata che ha già graffiato la coesione sociale sia tra ricchi e poveri sia tra le regioni del nord e quelle del sud.
Una rottura di solidarietà trasversale che aveva fatto dire ad Amartya Sen: "Il Welfare state è stato forse il principale contributo della civiltà europea al mondo e sarebbe molto triste se la stessa Europa lo perdesse"
.Ma l'individuo è ancora lasciato solo e sta vivendo la nuova condizione sociale di escluso o, se volete, di utente-cliente delle politiche della salute ben affermate in Lombardia.
*Sociologo e counselor professionale.
Quelle pratiche di potere tutte chiuse in se stesse
di Matteo Notarangelo*
Chi ha il potere fa di chi subisce il potere la quintessenza del male.Ma quando chiedono di ascoltare le ragioni di chi ha il potere, c'è chi preferisce sentire quelle di chi non ha il potere.
La crisi delle città è determinata dalla classe politica, protetta dagli organi di controllo amministrativo, oggi inesistenti. Dalle città chiuse, con poca partecipazione politica, chi può fugge, chi non può si adegua e chi non vuole si scontra contro i poteri visibili e invisibili, che impediscono la crescita civile. In quelle città, le classi dirigenti non hanno una visione, un progetto per le loro comunità e ostacolano ogni idea di crescita civile e di partecipazione democratica. È difficile definire democratiche le prassi di governo in queste comunità, che non riescono a immaginare Ia città del futuro. I soliloqui dei rappresentanti istituzionali mostrano i disastrosi distacchi dalla gente, nauseata dalle scelte amministrative di individui incontrollati. Ancora oggi, ci sono tante città prigioniere del passato. La loro classe politica resta espressione di vecchi modelli di potere, chiusa ai tempi nuovi e avulsa dalla nuova scienza urbana. Lì succede che i consigli comunali sono vuoti, mentre si espande la folla solitaria, sempre più lontana dalla noia della politica amministrativa, che ritrova le sue ragioni nei vecchi modelli organizzativi del passato. Le città politiche esistenti sono città solitarie, che negano la partecipazione civile e politica. Quelle città attraversano il momento buio della loro storia plurisecolare, falsificata e poco raccontata. Una storia fatta di comportamenti antidemocratici e di tanti silenzi.
La crisi della città
All’origine della loro crisi, c’ è l’individuo che ritarda, o rinuncia, a essere cittadino. Le città si trasformano in agglomerati urbani dove è in atto un ritardato scontro civico tra le persone che abitano quei territori e le loro istituzioni civiche. Un conflitto silenzioso, che provoca i suoi disastri umani, sociali, culturali e demografici.
Rivolte Popolari
In quei luoghi, la gente che resiste non fronteggia un nemico invisibile, ma una secolare storia sociale fatta di poteri "legali", che rallenta la crescita civile e democratica dei suoi abitanti. Non è difficile conoscere il pensiero motivante delle loro istituzioni rappresentative. Il “gioco” sociale” è noto ed è conosciuto. Quell’ antica storia di potere narra di due mondi: quello centrale e quello periferico.
La loro cultura politica organizzativa affonda le radici nei vecchi e lontani modi di pensare di persone diverse, che difendono i loro significanti medioevali.
Si sa, i partiti e i movimenti politici, che dominano in ogni dove, non sono democratici e non sanno più sognare. La loro vita interna è determinata da un élite centrale con uomini e donne di servizio, tenuti in uno stato di dipendenza. La periferia, invece, è popolata dai "signori" del consenso, piccoli e inadeguati politici, che, in cambio di voti, impongono la loro volontà al di sopra della legge. Questi due mondi, costruiti su ragioni politiche e giuridiche di subordinazione, sono ancora lì a imporre le loro abitudini. Il confondersi di questi due agiti è, ormai, la grammatica del potere politico e amministrativo di oggi. Un potere freddo, antidemocratico che agisce con logiche escludenti. Quello del potere centrale e quello del potere periferico sono due ordini di convivenza dove predominano e si confondono la legge scritta e la legge orale. In quei territori dell'abuso, regnano il potere della forza politica, derivante dal voto, e il potere della forza, sgorgante dall'arbitrio degli uomini periferici. Due poteri che dialogano dai tempi antichi e che, tutt'oggi , si completano.
Il controllo dei municipi
L’intrecciarsi delle due visioni politiche, centrale e periferica, con le loro pratiche di vita, si manifesta nei riti elettorali, che hanno poco o nulla di democratico. Durante il voto, diventa visibile la forza della legge non scritta, l’organizzazione tribale e gli intrecci socioeconomici dei due mondi, che producono i loro frutti politico-istituzionali velenosi. Sono “patti tra uomini e tra famiglie”. Gli uomini e le donne che incarnano i simboli dei partiti politici di governo sembrano che abbiano una storia politica, sociale e culturale di rispetto, di idealità, di progettualità, ma, di fatto, sono espressione del modo tribale di vivere i tempi moderni. Costoro non formano la "casta", bensì i puntelli del sostegno elettorale al candidato vincente, quasi predestinato alla carica pubblica. Quello che si manifesta in quelle città è un patto tacito tra "uomini e famiglie, scrivevo, che, con l’ “assassinio” democratico elettorale, diventano forze invisibili. Gruppi di persone che, poi, si evaporizzano dagli spazi pubblici e scelgono di agire nell'anonimato. Dopo il voto, con il lungo silenzio civile, inizia il tempo della loro certezza, quel tempo di contare su un’amministrazione amica, che potrebbe soddisfare il bisogno del membro della tribù, qualora emergesse. A costoro, poco importa degli altri, dei luoghi comuni, delle istituzioni civili, delle regole di democrazia rappresentativa, della partecipazione democratica, della sapienza, della giustizia, della concordia, della temperanza e della carità, virtù del buon governo.
La rinuncia alla cittadinanza
Consumato il rito elettorale, si struttura il “potere” civico. Gli organi di governo mostrano i volti delegati all’uso del potere pubblico. Delle loro competenze e abilità, nessuno ne parla. Queste pratiche di potere, chiuse in se stesse, vengono subite dalle popolazioni. In questo gioco dell’assurdo “politico”, i destini di tanti si intersecano e si incrociano con la vita pubblica. Ai bisogni della comunità si avvicendano quelli dei clan del consenso e inizia il controllo sociale e della spesa pubblica, sempre ammantata da tanti silenzi. Il tutto diventa normalità. Nel tempo, resta da sostituire qualche fidato impiegato e incanalare i soldi pubblici. Per questo, ci sono i concorsi pubblici e le gare di appalto. Agiti di “potere pubblico” perfetti nella forma, spiegati sempre con qualche ragione o con un'improvvisa emergenza amministrativa. E succede che dai tempi antichi viene mosso lo spirito del dominio, che giustifica e formalizza l’ impegno tribale preso o da rinnovare, a cui dare la giusta “fattezza” legale. In queste pratiche concitate, trovano ragioni le buone visioni della città, l’ ordinata crescita della popolazione, il salutare benessere dei suoi abitanti, solo se rientrano negli effetti collaterali. E’ vero, servono delle proposte per incalzare gli “eletti” sul terreno dello sviluppo e della crescita della comunità. Tanto è possibile dove esiste una comunità politica civile, aperta, democratica.
Ma non c'è. In questo tempo, le idee innovative, purtroppo, si enunciano, solo nelle giuste occasioni, senza crederci troppo. Accade, perciò, che gli spazi della discussione e della partecipazione, spesso, vengano resi afoni, per non turbare il controllo sociale e i “patti” antichi stretti . Qui, è ovvio, arretra la legalità e muore la democrazia rappresentativa. Nel prevalere dei silenzi collettivi, non può espandersi la società civile.
Chi volesse rincorrere il diritto, dovrebbe vivere nelle aule dei tribunali e avere una buona, anzi, ottima salute mentale. Nel santuario del diritto, quell'idealista verrebbe crocifisso. Ogni buon cristiano sceglie, perciò, di vivere la sua vita da persona normale, rinuncia ad aprire conflitti con i tanti poteri, piccoli e miseri, che si annidano nella pubblica amministrazione e si ramificano un po’ ovunque. E’ questo il tempo e la storia che impongono la rinuncia alla cittadinanza attiva.
La folla solitaria
In quelle città tristi, ci sono consigli comunali occupati da consiglieri eletti con "ammassi" di voti. Ci sono sindaci che governano senza dialogare con i cittadini. Ci sono moltitudini di individui educati a considerare il governo della città una “cosa loro”, privata, degli eletti. In quelle contrade può accadere che, in piena pandemia, il municipio chiuda il portone principale d’ingresso. E nessuno si meraviglia. È evidente: in questi luoghi, difetta la crescita della partecipazione politica, da tempo addomesticata, arranca la coscienza civica e domina la cultura della sopraffazione darwiniana. Per le forze di governo periferico, il mutismo, che non è omertà, diventa la prova della buona amministrazione, della solidarietà. Non è cosi. La gente normale, i tanti resistenti, resi una folla solitaria, sono sempre più lontani dalla vita collettiva. Eppure, tra di loro, c'è chi pensa di costruire il futuro in queste comunità antidemocratiche, per divulgare i valori della partecipazione e della condivisione democratica, necessari per riprogettare la città gentrificata. Prima o poi, ci saranno delle donne e degli uomini "nuovi", che sogneranno una nuova città aperta, includente, democratica con nuovi modi di pensarla, di abitarla, di goderla e con tanti nuovi bisogni e tanti nuovi diritti. In quella città, forse, non avrà il diritto di cittadinanza "l'uomo del Medioevo", che continua ad abitare i municipii di oggi.
*Sociologo counselor professionale
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