Etica e Filosofia del Servizio Psichiatrico Idee e esperienze alla ricerca del "nuovo" in campo psichiatrico.

07 dicembre 2013

Pensiero Scientifico Editore 1996

A cura di Gaspere Vella e Alberto Siracusano con saggi di A. Argo, M. Bassi, C. Bressi, G. Ferrari, P.L. Giordano, G. Invernizzi, G. Levi, P. Procaccianti, E. Sacchetti, M. Schiavone

L'argomento di questo libro si pone alla confluenza di due grandi tematiche di estrema attualità, i diritti del malato e le responsabilità del medico, e forma una zona di incontro, non quieta, degli elementi costitutivi delle due correnti principali.
Questioni etiche, tecniche, di ricerca, giuridiche, economiche (costi/benefici), storiche, sociali, si agitano in quest'area, resa ancora più critica dalla complessità bio-psico-sociale dell'agire psichiatrico.
La psichiatria è la frontiera più avanzata del campo medico; ha cominciato ad affrontare, molto tempo prima delle altre branche della medicina, il problema del pieno riconoscimento dei diritti fondamentali della persona.

Il dibattito contenuto nel volume, articolato attraverso i diversi contesti operativi e le diverse tipologie del consenso, è testimone di una modernità della nostra disciplina, derivante dallo sforzo di individuare un percorso - che è metodo di ricerca - che intenda il consenso informato non come una norma statica, bensì come un evento dinamico, base e motore dell'alleanza terapeutica nella relazione medico-paziente.
È in questo spazio relazionale che l'alleanza terapeutica può trovare la giusta misura tra «il dovere di informare» e il permettere al paziente di mantenere la possibilità di «poter scegliere».Il fatto che il paziente conservi la libertà di scelta è garanzia che, nel lavoro terapeutico, si possa raggiungere quel sentire comune (consenso) tra psichiatra e paziente,

che, a sua volta, è fattore fondamentale per la definizione degli obiettivi terapeutici da raggiungere e la valutazone di quelli raggiunti, siano essi farmacologici, psicologici o combinati.

Gaspare Velia, Alberto Siracusano

Capitolo 3 Problematiche Giuridiche

Antonina Argo, Paolo Procaccianti

Origine del Consenso Informato

«L'attuale dibattito relativo all'acquisizione del consenso all'atto medico costituisce uno degli aspetti di maggiore interesse ed insieme di «problematicità» dell'opera medica complessivamente considerata, in vista delle finalità preventive, terapeutiche nonché riabilitative ad essa connesse.
In tale prospettiva anche la «prassi clinica psichiatrica», pur considerata nelle sue più varie tipologie terapeutiche tutte comunque riconducibili alla definizione di «atto medico», non può, né deve, discostarsi dalla ricerca dei fondamenti di «giustificazione» legale e disciplinare dell'esercizio della relativa competenza specialistica. (12)
Una trattazione dell'argomento «consenso informato» non può dunque sfuggire al tentativo di inquadrarne, definendoli, i presupposti sotto il profilo del nostro ordinamento costituzionale, legale penalistico e civilistico, nonché deontologico, poiché tali principi si riversano, in modo tutt'altro che marginale, nell'attività del sanitario, essendo a presupposto dell'adeguamento ad una corretta prassi medica. Il «consenso informato» costituisce in realtà lo snodo cruciale delle attuali riflessioni che hanno pertinenza con [fondamenti di liceità all'atto medico. (3)
Il principio del «consenso informato» comparve formalmente per la prima volta sulla scena della giurisprudenza in America nell'anno 1914, allorché, nella famosa sentenza del giudice Cardozo, si formulò il principio che «ogni essere umano adulto e sano di mente ha il diritto di decidere ciò che sarà fatto sul suo corpo, e che un chirurgo che effettua un intervento senza il consenso del suo paziente commette un'aggressione per la quale egli è perseguibile per danni».
Neppure per la cultura medica italiana il principio del «consenso informato» costituisce un evento nuovo, ma essa, soltanto del tutto recentemente e, verosimilmente, sulla spinta della crescita e dello sviluppo della disciplina che nella cultura medica anglosassone degli anni Settanta assunse denominazione di «bioetica», (4) ha riscoperto «concetti che già le appartennero nell'Umanesimo rinascimentale, caratterizzati dalla scoperta della centralità dell'uomo o, come meglio oggi si intende, della persona umana», con tutti i problemi e le potenzialità che la caratterizzano e «non solamente quale la vittima della malattia o, addirittura, il luogo in cui la malattia agisce». (5)
Si assiste dunque ad una maggiore attenzione nei confronti dei diritti della persona e della sua peculiare forma di «dignitas», cui corrisponde, in medicina, una più estensiva interpretazione del principio di responsabilità del neminem laedere; ciò induce a considerare, anche nella sensibilità comune, come «illecita» l'imposizione o l'attuazione di un intervento medico per il solo fatto che «il sanitario, nella sua indiscussa autorità o competenza, ritiene che esso sia o possa essere utile».
È dunque allora opportuno ripercorrere il cammino che nella storia europea ha condotto al riconoscimento del valore fondamentale da attribuirsi al principio di «autonomia» della persona umana, anche per gli aspetti di pertinenza della pratica sanitaria, principio che si declina in forma di «consenso informato» nella contemporanea accezione della giustificazione morale e liceità legale dell'attività medica.
I principi che sottendono la «prassi medica», unanimemente riconosciuti da tutte le organizzazioni Mediche Mondiali, furono elaborati in seguito al processo di Norimberga, le cui conclusioni, per l'etica medica e la deontologia professionale, furono poi formalizzate nel Congresso Medico Mondiale di Helsinki e in quello di Tokyo; tale processo «lavò» anche la colpa originaria (la collaborazione al genocidio del popolo eletto), commessa dalla classe medica sotto il dominio nazista, a causa dell'asservimento incondizionato della deontologia ed etica professionale medica alle norme di una Legge statale «degenerata», a dispregio dei diritti dell'intera umanità.
È in tale panorama storico e culturale, caratterizzato da una forte tensione «antiriduzionistica» ovvero dall'«ideologia dell'antiregolazione», che si assiste ad una nuova attenzione ai diritti genuinamente attribuibili (diritti naturali) alla «persona umana», a maggior ragione pertinenti a quella che soffre. Essi sono senz'altro rappresentati dal diritto alla vita ed alla libertà. (6)
Ciascun uomo ha dunque fondamentalmente il diritto di essere vivo (una volta nato) e di autodeterminarsi. Non possono pertanto assumersi come lecite le limitazioni di tali fondamentali ed irrinunciabili diritti a seguito, per esempio, di un mutare delle condizioni politiche ovvero, e questo costituisce evenienza ben più frequente, per la presenza o l'irrompere della malattia nella vita dell'uomo.
Il corrispondente di tali irrinunciabili principi per gli esercenti la professione medica è rappresentato dal fondamento etico del principio di «beneficialità» e di quello di «non maleficienza», nonché dal principio di «autonomia» delle persone che si trasferisce, tout court, nel principio del «consenso informato».
È pertanto corretto domandarsi se gli «echi» di tali eventi e dei principi sanciti da organizzazioni sovranazionali (si veda la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo) siano rintracciabili nel diritto positivo ed altresì enunciati nella Carta Costituzionale del nostro Paese (la cui formulazione fu contestuale a tali eventi per l'aspetto cronologico); la dottrina giuridica e medico-legale è senz'altro protesa ad un positivo riconoscimento di tale «corrispondenza», intendendo altresì, come osserveremo più avanti, che soltanto del tutto recentemente i principi costituzionali sono stati riletti alla luce di una nuova sensibilità nei confronti della persona umana prima ancora che del paziente.
In quale prospettiva si pone allora l'atto medico rispetto al bene salute?
Nel 1938 Carnelutti, anticipando di quasi 60 anni la famosa sentenza della Corte d'Appello penale di Firenze dell'anno 1991, assimilò, quanto ad aspetto formale, l'atto di incisione del bisturi a quello dell'arma da taglio nella determinazione della lesione personale dolosa.
È evidente che il principale motivo del contendere attenga, anche per questo punto, alle possibili differenze di «senso» attribuibili ad un atto, in specifico l'incisione del bisturi (ma in nulla differisce, ad esempio, l'utilizzazione di un farmaco neurolettico), che formalmente appare simile alla lesione volontaria quanto ad «invasività» nella sfera di integrità psico-fisica del soggetto.
La fondamentale questione, al proposito, è se sia possibile ritenere la differente finalità dei due atti (quello medico e la lesione volontaria appunto) di per sé sola sufficiente a giustificare l'atto medico, e pertanto idonea a [...]»

 

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