13 luglio 2011

Quale politica per la salute mentale
Dalla assistenza istituzionale alla assistenza comunitaria

Prefazione
Simon Goodwin confronta quanto accade nell'Europa occidentale e nel Nord America nel campo della salute mentale, senza trascurare competenti occhiate all'Asia industrializzata.
Il risultato è di estremo interesse e conforto per chi ha fatto della psichiatria di comunità una scelta professionale; ma al conforto, dopo poche pagine, subentra una sottile inquietudine: con un vasto ricorso alla letteratura scientifica prestigiosa e con elaborazioni a fil di logica, egli mostra quanto deboli o poco dimostrati siano molti dei concetti portanti delle politiche psichiatriche, senza distinzione tra matrici biologiche, comunitarie o istituzionali.

Degli assunti, da tempo dati per acquisiti, si rivelano privi, all'origine, di un impianto sperimentale e scientifico e forti soltanto di una tradizione orale mai falsificata.
Se è vero, quindi, come analizza nel primo capitolo, che nei paesi industrializzati (con alcune significative eccezioni) vi sia una generale tendenza alla riduzione degli ospedali psichiatrici e alla riconversione in letti di ospedali generali, ciascun paese ha introdotto, in modi, dimensioni e tempi diversi, l'assistenza comunitaria e la nuova residenzialità.
Se oggi negli Stati Uniti il 60% dei ricoveri avviene in ospedali non federali a breve degenza (alcuni ospedali pisichiatrici superavano i 10.000 letti), tuttavia l'amministrazione Reagan ha compromesso il ben avviato processo comunitario, lasciando al privato imprenditoriale la vera e propria gestione della sanità, psichiatria compresa, con discutibili risultati.

In Francia solo verso la fine degli anni Ottanta si è arrivati al completamento del programma di settorizzazione, con un ottimo aumento di strutture intermedie e alloggi, ma l'ospedale psichiatrico nel Settore è ben saldo, anche se sotto altro nome.
In Germania, i tentativi fine Ottocento inizio Novecento di terapia comunitaria furono annullati dal nazismo che, con l'eutanasia di 70.000-120.000 pazienti e la sterilizzazione di 200.000-350.000 persone geneticamente pericolose, ha determinato un fenomeno dalle conseguenze persistenti; allontanare dagli ospedali psichiatrici il personale più aperto e liberale, lasciandovi quello più retrivo; poco è quindi, per ora, cambiato in senso comunitario.
Se il Canada, la Danimarca, l'Olanda si sono decisamente orientate verso la terapia di comunità pur mantenendo gli ospedali psichiatrici, così non è per la Spagna e molti dubbi vengono avanzati anche per alcune regioni d'Italia (Goodwin si riferisce ai primi anni del Novanta).

Già queste differenze tra nazioni, celate da aspetti comuni talvolta marginali, dovrebbero indurci ad una riflessione sulle specificità della psichiatria (ci sarà pur un motivo per cui gli altri agiscono diversamente) ma anche sul rischio d'errore insito in un'acritica importazione di modelli esteri, siano essi di natura gestionale, classificatoria, psicopatologica o valutativa.
In ogni caso, i differenti percorsi delle varie nozioni e le modalità attuative difficilmente sovrapponiteli, evidenziano grandi diversità tra i processi che hanno portato all'orientamento comunitario.
Per meglio evidenziare le differenze e nel contempo l'esiguo corpo sottostante ad alcuni processi decisionali, Goodwin rivisita alcuni "fondamentali" psichiatrici, dati per dimostrati e ormai reiterati senza necessità di verifica. La stessa primaria importanza degli psicofarmaci, non solo nella riduzione delle popolazioni ospedalizzate ma anche nel miglioramento della qualità della vita, sarebbe ben lontana dall'essere dimostrata.
All'opposto, motivi economici, sovrappopolazione interna, limitati ma efficaci movimenti culturali, sarebbero alla base della deistituzionalizzazione e non, come almeno per l'estero si potrebbe credere, delle attente analisi sociali e delle valutazioni sui fattori terapeutici e sui loro esiti.
Salvo poche eccezioni, non sarebbe nemmeno stato un impatto della psichiatria sull'opinione pubblica a determinare cambiamenti organizzativi e di concezione della malattia mentale né, a supporto degli indirizzi comunitari, sono reperibili studi convincenti su preferenze da parte dei malati mentali per terapie di comunità piuttosto che istituzionali o su quanto costoro preferiscano, ai ricoveri, la convivenza con le famiglie nel proprio ambiente.
Persino consolidate prevalenze di malattia come quelle tra donne e uomini nella depressione sono da rivedere, uscendo dal ristretto ambito clinico per chiamare in causa motivi sociali, modalità prescrittive e sotterranei pregiudizi.

Alle ricerche che dimostrano che le terapie comunitarie costano la metà di quelle istituzionali, Goodwin ne affianca altre che le confutano, almeno per certe patologie e per determinate situazioni, sottolineando quanto gli indirizzi comunitari possano consentire una maggiore trascuratezza ed inefficacia con un conseguente, artificiale, calo dei costi.
Allarme preoccupante, assillati come siamo da confusi stimoli alla managerialità e alla razionalizzazione della spesa.
Molte affermazioni di Michel Foucault che parevano solo geniali provocazioni filosofiche, dopo l'analisi di Goodwin, meritano una revisione, costringendoci a riflettere quanto poco la politica della salute mentale sia determinata dalla psicopatologia degli utenti, dai loro bisogni e dagli stessi professionisti.
L'organizzazione stessa dei servizi che ne discende pare talvolta frutto di processi decisionali lontani da una specificità psichiatrica.
Questo libro colma un vuoto tuttora presente in Italia.
Lo sforzo di creare dal nulla un'organizzazione territoriale, la radicale riforma concettuale ed operativa insita nel lavoro senza la rete protettiva degli ospedali psichiatrici, le difficoltà amministrative, politiche e culturali quotidiane hanno indotto in molti psichiatri una disattenzione non soltanto verso ciò che avviene all'estero ma anche su come sia organizzata la psichiatria fuori dalla propria regione. È presumibile che molti operatori della salute mentale abbiano fatto proprio il "cosa importa al nocchiero in tempesta la composizione chimica dell'acqua" di Friedrich Nietzsche dell'Umano troppo Umano, autoalienando così il proprio lavoro.
Se, come afferma Goodwill, in alcuni paesi la spinta verso la psichiatria comunitaria è più derivata da una richiesta di trattamenti più efficaci incalzata dall'urgenza di riforme sociali per il mutare delle macro concentrazioni, grande attenzione dobbiamo noi italiani rivolgere ai sempre più evidenti processi dì delega a istituzioni ed organizzazioni alle quali affidiamo gli ingravescenti problemi di residenzialità e la gestione del quotidiano, da molti servizi psichiatrici per forza o per scelta trascurato.

Con questo non si vuoi dire né che l'orientamento dipartimentale debba essere determinato o condizionato dalle strutture né che la psichiatria debba sempre risolversi in un'acritica presa in carico globale; piuttosto, che il Dipartimento di salute mentale deve sempre più orientarsi per funzioni, ove necessità residenziali e il quotidiano rappresentino uno dei momenti della gestione funzionale dei bisogni dei pazienti.
Sempre a proposito dei processi di delega, questi sono sotto accusa negli Stati Uniti e se è vero che in Europa le grandi compagnie assicuratrici stanno proponendo sistemi di gestione simili, la psichiatria italiana dovrebbe temere e confutare un sistema criticato dalle loro associazioni scientifiche e dallo stesso Goodwin.
Almeno due sono grandi mutamenti concettuali della psichiatria contemporanea, a mio parere: la negoziazione del trattamento con il consenso informato che sovverte l'obsoleto concetto di mancanza di coscienza di malattia e l'attenzione alla qualità della vita rispetto al privilegio della riduzione dei sintorni.
Se quindi l'idea comunitaria va appoggiata, nel contempo va resa più attinente al desiderio degli utenti e alle loro possibilità di negoziazione.
Troppo facilmente si legifera senza verificare prima le possibilità d'attuazione, vincolate come sono non soltanto da fattori economici ma da restrizioni di un contradditorio sistema legislativo.
Gli orientamenti e le decisioni in campo di salute mentale non sempre sono coerenti con la psicopatologia e con le necessità degli utenti, essendo espressione di altri interessi sociali ed economici.
Goodwin giunge a quest'ultima tesi analizzando le politiche post-belliche e non possiamo che essere d'accordo osservando come in molte regioni italiane la decisione parlamentare della chiusura degli ospedali psichiatrici non sìa stata preceduta, come del resto nemmeno in altri paesi, da valutazioni più dettagliate, trovando forti ostacoli nelle diverse sedi locali.
Talvolta la nostra politica comunitaria si è risolta non in una nuova convivenza con un coinvolgimento delle risorse ambientali e di cittadinanza ma nella creazione di circuiti specialistici che si risolvevano a loro volta per i nostri pazienti in un parlare, mangiare, trascorrere il tempo esclusivamente tra di loro, reiterando il vecchio isolamento manicomiale. Dalla miseria dei vecchi ospedali psichiatrici sono stati trasferiti in una immiserita vita quotidiana.
Se è comunque assurdo ipotizzare dei ritorni indietro, dobbiamo, tuttavia, spontaneamente introdurre reali sistemi di valutazione e di certificazione di qualità, condividendo espressioni per ora vaghe come "qualità della vita" ed "equità della salute", anche cooptando rappresentanti degli utenti e dei familiari nelle agenzie valutative.
Non credo che questo rappresenti una rinuncia alla necessaria individualità e creatività dello psichiatra ma sia finalmente considerare complementare il particolare e l'individuale al pubblico e al lavoro di gruppo.
La troppa generalizzazione contiene sempre, a mio parere, un altro rischio: quello di andare incontro ad una medicalizzazione della devianza, con una progressiva sostituzione della medicina alla sociologia e alla stessa etica. Gioco d'azzardo, violenza e persino navigare in Internet sono diventate categorie psichiatriche e quindi oggetti ipotetici di trattamento.
Gli psichiatri, almeno da noi, sono sempre più frequentemente chiamati a spiegare e giustificare in tempo reale eventi di cronaca, peraltro incompleti e mal riportati, rinunciando così ai propri strumenti qualificanti: il rapporto interpersonale e la decodificazione affettiva.
Il rischio dell'eccessiva psichiatrizzazione della devianza è di allargare talmente i confini della nostra disciplina da renderla politicamente e istituzionalmente ingestibile.
Sarà, di conseguenza il sistema salute e il sofferente psichico, in particolare, a farne le spese.
Dovrebbe quindi diventare indispensabile introdurre interviste strutturate, alberi decisionali e linee guida ai trattamenti, psicoterapie comprese, che se acriticamente applicati possono avere un costo in termini di libertà professionale e creatività, se utilizzati invece come indicatori, determineranno lodevole equità qualitativa e incrementeranno un reciproco confronto nell'erogazione di prestazioni, ora troppo sparpagliate e senza possibilità di revisioni malgrado l'elevato sforzo individuale.
Queste introduzioni consentiranno all'Italia che, come traspare dalla cronografia di questo libro, è stata un laboratorio foriero di cambiamenti innovatrivi, di meglio garantire questa propria immagine internazionale.

Pier Maria Furlan Direttore Dipartimento Universitario di Salute Mentale Ospedale S. Luigi Gonzaga - Asl 5 Collegno (Torino)

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