Intervista al prof. Paolo Cendon - (Professore ordinario di Diritto privato – Università "La Sapienza" di Trieste)

a cura di Donata dei Nobili

Paolo Cendon è un giurista, scrittore e saggista italiano. Negli anni Settanta e Ottanta ha collaborato con il team di Franco Basaglia per la riforma della psichiatria, dei suoi istituti, del codice civile.

L'intervista

Negli ambienti accademici lei è molto noto, ma la gente comune non la conosce abbastanza. Potrebbe dire qualcosa di sé?

Sono veneziano di nascita, mi sono laureato in legge a Pavia nel 1963. Sono a Trieste dal 1971 e sono ordinario della Cattedra di Diritto privato nella Facoltà di Economia della città.
In veste di civilista, mi sono votato alla "causa" di Basaglia, per la revisione della normativa che regolava l'ex reclusorio psichiatrico?
Sono ancora oggi entusiasta di parlare come paladino per la cancellazione formale degli "ospedali per i matti" e dare vove per l'affermazione universale dei "I diritti dei più fragili", come recita una mi a pubblicazione. Ho i capelli rossi scombinati.
I temi delle mie ricerche: la responsabilità, la famiglia, gli animali, il disagio psichico, i bambini, la cattiveria umana, il danno esistenziale, il suicidio, le parole, i soggetti deboli.

Poco tempo fa (esattamente nel 2003) è uscito un suo libro col titolo "I malati terminali e i loro diritti" nel quale ha dimostrato una grande sensibilità per le persone con malatttie incurabili o in stadi terminali. Potrebbe dirci cosa l'ha spinta a scrivere di questo argomento?

Un pò il caso.
Abbastanza il ricordo della morte di mia madre; e poi l'impressione che oggi non si combatte il dolore a sufficienza. L'insofferenza verso le declamazioni mistiche, compiaciute.
Soprattutto l'idea che - riguardo agli infermi - occorrerebbe una nuova umanità: ascolto, gentilezza, partecipazione, rispetto, premura, delicatezza, garbo, qualche tocco di allegria.
Volare bassi: stando sempre dalla parte di chi ha paura, di chi "non ce la fa".

Cosa dovrebbe fare il diritto per i morenti?

Non so come saranno i miei ultimi mesi di vita.
Credo che vorrei essere in grado di sistemare un po' le cose, di sciogliere qualche nodo ancora pendente. Fare la pace - ad esempio - rileggere l'Antologia di Spoon River, bruciare certe carte, perdonare e farmi perdonare. E poi mantenere le promesse, guardare i bambini che giocano, se occorre vendere o comprare o regalare qualcosa.
Il diritto dovrebbe aiutarmi a fare tutto ciò: l'idea è che l'ultimo chilometro appartiene alla vita, non alla morte, e che occorre poterlo utilizzare al meglio.

Il medico deve informare il malato del suo stato di salute o malattia.
Il paziente, sempre se lo desidera, ha il diritto di non sapere nulla sullo stato reale della sua malattia?

Chi non vuol sapere deve continuare a non sapere. Il medico, chi comanda, è tenuto ogni volta a chiedersi se, in quel certo caso, debba prevalere il diritto all'informazione o non invece - quando è palese che la verità innescherebbe nell'interessato spirali depressive - il contrario: ottimismo, reticenza, microbugie, veli, incoraggiamenti.

Trieste è una città atipica con tanti anziani soli e malati. Come li tutela la legge?

Ospizi, sussidi, un po' di medicine gratis, gli sconti al cinema.
Non è granchè.
Poche zone pedonali in città, pochi soldi; case tristi, troppi paesaggi urbani distrutti di recente con orrendi rifacimenti. Occorrebbe partire da ciò che un anziano vuole, chiedendoglielo magari: e poi cercare di fornirgli i supporti necessari a realizzare il "suo" progetto.
Fornire l'essenziale?
Servizi sociosanitari che funzionino, assistenti preparati, congrui investimenti, amministrazioni pubbliche sensibili e vicine a chi è in difficoltà.

Oggigiorno si pratica molto l'accanimento terapeutico, che aggiunge al dolore primario altre sofferenze inutili e non necessarie. Come può essere tutelato il malato?

Neanche papa Giovanni Paolo II ha voluto tornare al Gemelli: e non ce lo hanno riportato a viva forza.
Se no sarebbe ancora "vivo", ma come?
Ecco la regola: il morente (che lo voglia, beninteso) ha diritto a non essere tenuto in vita quando ciò lo fa soffrire e basta, senza speranze di recuperi.
Quando poi non ci siano macchine da staccare, il dolore sia invincibile, il paziente non riesca a uccidersi da solo, occorrerebbe - in casi limite - aiutarlo a morire anche attivamente.

Ha ancora qualcosa da suggerire od aggiungere per i nostri lettori?

E' difficile dare consigli.
Io credo nel "diritto alla felicità", intesa come rigoglio, fioritura; bisogna concepirsi come soggetti desideranti, smaniosi.
La mattina uno si alza e pensa: vorrei fare questo, quest'altro, mi piacerebbe telefonare ad Angiolina, mangiare dei folpi, rivedere un vecchio film, uscire con gli amici, aiutare quel gatto.
Bene, fallo; soprattutto organizza liberamente i tuoi bisogni amorosi, in tutti i sensi.
Anche la bontà conta tantissimo.
Ma l'amore spalanca le porte: è un trucco che inventa il cuore (insieme alla pancia) per farci entrare in noi stessi, per farci scoprire cosa siamo.

 

Centro Diurno di Accoglienza Monte Sant'Angelo (Foggia)